La strumentalizzazione del paradigma sostenibile nel turismo neoliberale marocchino: il caso di Taghazout Bay

Sustainability has emerged as the defining keyword of global development, serving as the language through which governments, institutions, and corporations legitimize economic and political decisions. Its persuasive power stems from its ability to appear as a neutral and universal principle, capable of generating consensus across ideological divides. Yet, what in the 1970s arose as a radical critique of capitalism’s limits has since been transformed into a functional instrument for its reproduction, framed as an indispensable condition for achieving environmental and social goals. Tourism offers a particularly revealing lens through which to observe this paradox. In the aftermath of the crises triggered by mass tourism, the paradigm of sustainable tourism presents itself as a conciliatory solution, promising to balance economic growth, environmental protection, and social justice. However, the effort to “correct” past imbalances without challenging the very logics that produced them exposes the deeply ambiguous nature of this model. This thesis explores this dynamic through the case of Morocco, where since the early 2000s sustainability has become a cornerstone of national tourism strategies. The analysis demonstrates that, far from representing a rupture with the past, sustainability functions as a new grammar through which extractive logics and entrenched neoliberal dynamics are reformulated. By adopting a historical-critical approach and examining concrete cases—most notably the megaproject of Taghazout Bay—the research shows how sustainability is performed and instrumentalized, becoming a discursive and operational device that sustains processes of accumulation, marginalization, and dispossession, all of which are tied to a broader neocolonial reorganization of space and society.

La sostenibilità si è affermata come parola d’ordine dello sviluppo globale, trasformandosi nel linguaggio attraverso cui governi, istituzioni e imprese legittimano scelte economiche e politiche. La sua forza risiede nella capacità di apparire come principio neutrale e universale, capace di generare consenso oltre le divisioni ideologiche. Eppure, ciò che negli anni Settanta era emerso come critica radicale ai limiti del capitalismo, oggi opera come strumento funzionale alla sua riproduzione, narrata come condizione imprescindibile per il raggiungimento di obiettivi ambientali e sociali. Il turismo è un settore privilegiato per osservare questo paradosso. Dopo le criticità generate dal turismo di massa, il paradigma del turismo sostenibile si presenta come soluzione conciliatrice, promettendo di armonizzare crescita economica, tutela ambientale e giustizia sociale. Tuttavia, il tentativo di “correggere” gli squilibri del passato senza mettere in discussione le logiche che li hanno prodotti rivela il carattere profondamente ambiguo di tale modello. La tesi indaga questa dinamica attraverso il caso del Marocco, dove dagli anni Duemila la sostenibilità è divenuta fulcro delle strategie turistiche nazionali. L’analisi mostra come, lungi dal costituire una rottura con il passato, essa rappresenti la nuova grammatica con cui si riformulano logiche estrattive e dinamiche neoliberali già consolidate. Attraverso un approccio storico-critico e lo studio di casi concreti – in particolare il megaprogetto di Taghazout Bay – la ricerca evidenzia come la sostenibilità venga performata e strumentalizzata, trasformandosi in dispositivo discorsivo e operativo funzionale a processi di accumulazione, marginalizzazione ed espropriazione riconducibili a una più ampia riorganizzazione neocoloniale dello spazio e della società.